COMPORRE: UNA SERIE DI RIFLESSIONI

Stephen Rice: Feel The Music
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Mi accingo a scrivere questo articolo, anche per dare qualche suggerimento a chi si vuole cimentare nell’esercizio sicuramente non facile della composizione. Non un discorso completamente organico, o forse qualcosa di simile, ma anche singoli pensieri che possono essere raccolti singolarmente.
Dando per scontato che l’invenzione musicale è una forza che ti viene da dentro ed è difficilmente pianificabile sedendosi di fronte alla tastiera e pensando “ok, ora compongo qualcosa”, così come è difficile dire il “perché” si scrive o si improvvisa, e partendo dall’idea che non dobbiamo porci immediatamente con uno spirito critico pensando che la nostra intuizione magari assomiglierà per forza a qualcosa di già scritto, l’importante è avere il coraggio di osare, con la dovuta modestia. E’ inevitabile avere dei riferimenti dati dai nostri ascolti assidui e dalle nostra passioni, e questo si ritroverà in qualche nostra idea, ma facendo tesoro di quanto hanno fatto i nostri maestri possiamo lentamente provare a trovare la nostra identità. Del resto, sempre così è stato, un tramandarsi le conoscenze, e poi l’epoca in cui si vive fa il resto.
Io vengo da una metodologia decisamente diversa da quella che si insegna nelle classi di composizione, un metodo che parte prima di tutto dall’ascolto e successivamente dall’uso della ragione. Lo studio della composizione a tavolino, l’analisi metodica delle pagine più importanti scritte dai vari compositori, lo studio dell’arrangiamento specifico sul pianoforte e dei generi musicali più moderni porta sicuramente ad una capacità di sapersi muovere all’interno della materia, ma questo specialmente nella padronanza della forma piuttosto che nel saper cogliere una vera intuizione che provenga dal subconscio musicale, quel meccanismo che entra in gioco quando si suona e ci si abbandona alla propria ispirazione, ci si lascia guidare piuttosto che essere i “conduttori” dell’idea. A volte anche lo sbaglio, l’uscire dai propri movimenti abituali (e per movimenti intendo le progressioni armoniche o le zone della tastiera che si preferisce usare), dimenticare le regole armoniche convenzionali, sono fonte di ispirazione e aiutano a scoprire qualcosa di nuovo, che era proprio dietro l’angolo ma non avevamo mai notato. Anche l’improvvisatore abituato a seguire determinati schemi e progressioni armoniche, inevitabili soprattutto nella forma-canzone classica, dagli standard jazz ai nostri giorni, deve talvolta sforzarsi ed uscire dalle strade consuete, se davvero vuole creare qualcosa di nuovo.
Io credo che la cultura musicale, la capacità di ascoltare, sia il patrimonio più importante per chi compone. Ascoltare e capire, che non deve significare necessariamente avere il cosiddetto orecchio assoluto, ma comprendere il linguaggio musicale per carpirne il segreto. E’ un meccanismo che progredisce nel tempo parallelamente all’evolversi dei nostri gusti musicali, e che si affina ulteriormente guando ci risulta chiara la direzione musicale che intendiamo intraprendere. Ma per comporre in questo modo bisogna fin dal principio dell’approccio con lo strumento riservare un doveroso periodo giornaliero all’esercitarsi liberi dai vincoli dello spartito, e magari, quando se ne acquisisce la capacità, il ripetere determinati brani, cimentandosi nella trascrizione. L’orecchio musicale è certamente un dono di natura, ma si può anche allenare, come per ogni peculiarità dell’essere umano.
Esiste una scuola di pensiero che sostiene che più che altro si suona per se stessi, e quindi anche si compone per se stessi. Personalmente la maggior parte delle mie composizioni non sono ancora registrate, sono nella mia testa e sono – per il momento – un mio patrimonio personale. Ma niente gratifica di più del regalare emozioni alle persone, per cui ritengo che la vera missione di chi scrive musica sia trasmettere emozioni agli altri. Quando sento qualche commento positivo sulla mia musica, quando ricevo email di complimenti su questo o quel brano, ne sono molto felice. Significa lasciare quella traccia di sè, anche se piccola, che dà un senso a tutto quello che si fa. Senza l’ardire di volersi confrontare con i tanti grandi compositori passati e presenti, è conquistare quella piccola dose di immortalità.
Persone come i compositori del passato, ma anche i Beatles, o chiunque abbia scritto in modo indelebile il suo nome nella storia della musica grazie alle composizioni lasciate (e anche le canzoni sono grandi composizioni), sono benefattori dell’umanità al pari di alcuni premi nobel o scienziati, o si potrebbe dire che rappresentano il meglio che l’uomo è stato capace di realizzare in questo mondo . Del resto la storia, quella di cui l’uomo può vantarsi, è fatta in larga parte da chi crea opere d’arte, musica o letteratura.
Comporre seguendo la propria ispirazione significa comunque avere ben saldi i concetti di base della costruzione di un brano musicale, essere in grado di elaborare l’evoluzione di una melodia e non una semplice concatenazione di accordi come molti sono portati a fare nei lori primi approcci; a questo proposito, credo sia sempre meglio che l’ispirazione porti con sè sia la melodia che l’armonia, piuttosto che prima l’una o l’altra. E’ sempre comunque un esercizio utilissimo inventarsi una melodia su una serie di accordi dati, o aggiungere l’armonia studiando successivamente delle armonie alternative (sostituzioni) sulla base di una melodia data. Consiglio di prendere spunto, perché no, da brani famosi facendo questo tipo di studio, i risultati possono essere interessanti e anche divertenti.